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Breve lettura del territorio: Ulisse e Diomede nella Divina Commedia


La letteratura può aiutarci a conoscere un luogo, a leggere il territorio secondo un altro punto di vista: quello dell’autore.

Qualsiasi opera letteraria essa sia, ricostruire la memoria di un luogo o rivivere la percezione di uno spazio può essere utile per arricchire la conoscenza del posto in cui viviamo.


Il Lazio meridionale è stato oggetto di diverse citazioni nella letteratura, e con questo articolo vorrei ricostruire una parte della sua immagine tramite una delle opere più famose della letteratura italiana: la Divina Commedia di Dante Alighieri.


Nel 1953 furono ritrovati in un’ampia grotta sulla costa italiana a Sperlonga (LT), i frammenti di quattro gruppi definiti “barocchi ellenistici”. Questi gruppi scultorei dovevano decorare l’interno della grotta annessa alla villa dell’imperatore Tiberio tra i quali uno raffigurava il “Ratto del Palladio” da parte di Odisseo e Diomede.

Si tratta di uno dei gruppi statuari dell’Odissea di Marmo custodita all’interno del Museo Archeologico Nazionale e Area Archeologica di Sperlonga, testimonianza di un forte legame tra la storia di questo luogo, la letteratura che l’ha interessato e il valore artistico che l’ha avvalorato.


Per rispolverare alcuni versi del Sommo Poeta (prima di continuare l'analisi) riporto un estratto della Commedia dove Dante incontra Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno:


[…] di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, s’ com’io m’accorsi

tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.


E qual colui che si vengiò con li orsi

vide ‘l carro d’Elia al dipartire,

quando i cavalli al cielo erti levorsi,


che col potea sì con li occhi seguire,

ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

sì come nuvoletta, in su salire;


tal si move ciascuna per la gola

del fosso, ché nessuna mostra il furto,

e ogni fiamma un peccatore invola.


Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,

sì che s’io non avessi un ronchion preso,

caduto sarei già sanz’esser urto.


E ‘l duca, che mi vide tanto atteso,

disse: «Dentro dai fuochi son li spiriti;

ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso».


«Maestro mio”, rispuos’io, «per udirti

son io più certo; ma già m’era avviso

che così fosse, e già voleva dirti:


chi è in quel foco che vien sì diviso

di sopra, che par surger della pira

dov’Eteòcle col fratel fu miso?»


Rispuose a me «Là dentro si martira

Ulisse e Diomede, e così insieme

alla vendetta vanno come all’ira;


e dentro dalla lor fiamma si geme

l’agguato del caval che fe’ la porta

onde uscì de’ Romani il gentil seme.


Piangevisi entro l’arte per che, morta,

Deidamìa ancor si duol d’Achille,

e del Palladio pena vi si porta».


«S’ei posson dentro da quelle faville

parlar” diss’io, «maestro, assai ten priego

e ripriego, che il priego vaglia mille,


che non mi facci dell’attender niego,

fin che la fiamma cornuta qua vegna:

vedi che del disio ver le mi priego!»


Ed elli a me: «La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l’accetto;

ma fa che la tua lingua si sostegna.


Lascia parlare a me, ch’i’ho concetto

ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,

perché fuor greci, forse del tuo detto».


Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve del mio duca tempo e loco,

in questa forma lui parlare audivi:


«O voi che siete due dentro ad un foco,

s’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,

s’io meritai di voi assai o poco


quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l’un di voi dica

dove per lui perduto o morir gissi».


Lo maggior corno della fiamma antica

cominciò a scrollarsi mormorando

pur come quella di cui vento affatica;


indi la cima qua e là mendando,

come fosse la lingua che parlasse,

gittò voce di fuori, e disse: «Quando


mi dipartì da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,


né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ‘l debito amore

lo qual dovea Penelope far lieta,


vincer poter dentro da me l’ardore

ch’i’ebbi a divenir del mondo esperto,

e delli vizi umani e del valore;


ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno, e con quella compagna

picciola dalla qual non fui diserto.


L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin del Morrocco, e l’isola de’ Sardi

e l’altre che quel mare intorno bagna.


Io e’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dove Ercule segnò li suoi riguardi,


acciò che l’uom più oltre non si metta:

dalla man destra mi lasciai Sibilia,

dall’altra già m’avea lasciata Setta.


“O frati”, dissi, “che per cento milia

perigli siete giunti all’occidente,

a questa tanto piccola vigilia


de’ nostri sensi ch’è del rimanente,

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.


Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza”.


Li miei compagni fec’ io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti;


e volta nostra poppa nel mattino,

dei remi facemmo ali al folle volo,

sempre acquistando dal lato mancino.


Tutte le stelle già dell’altro polo

vedea la notte, e ‘l nostro tanto basso,

che non surgea fuor del marin suolo.


Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto dalla luna,

poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,


quando m’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna.


Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché della nova terra un turbo nacque,

e percosse del legno il primo canto.


Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;

alla quarta levar la poppa in suso

e la prora ire in giù, com’altrui piacque,


infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso».


Il sommo poeta accompagnato da Virgilio nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio incontra, tra i consiglieri fraudolenti, Ulisse e Diomede che si trovano nella stessa fiamma per scontare insieme la pena dato che in vita furono insieme nel peccato. I due sono colpevoli di aver rubato il Palladio (l’immagine di Atena) per privare Troia della sua protezione divina e incidere così sull’esito della guerra.

L’episodio del ratto del Palladio è menzionato anche in un’altra opera letteraria: le “Metamorfosi” di Ovidio, nella quale si narra che Ulisse si trattenne per un anno presso la maga Circe sul promontorio del Circeo a nord della cittadina di Gaeta. Al contrario dei suoi compagni che furono trasformati in maiali dalla maga, Ulisse riuscì a tenere testa ai suoi incantesimi evitando la stessa sorte.


Nel caso in esame credo che la letteratura sia uno dei pilastri fondamentali per capire l’origine delle nostre radici; una questione di non poco conto riguarda la toponomastica (lo studio scientifico dei nomi di luogo).

Qui abbiamo due casi per eccellenza, dei quali il primo è proprio il Circeo. L'etimologia corrisponderebbe a "nesos Kirkes", per l’appunto Isola di Circe, traduzione del nome semitico ai-aie, ossia isola della sparviera, Aiaia, e quindi Eea come è menzionata nell’Odissea di Omero.

Il secondo riguarda Gaeta, a darci un’informazione in più sull’origine del toponimo è Virgilio, che nell’Eneide scrisse che la città prese questo nome a memoria della nutrice di Enea (che si chiamava Caieta), la quale lì morì e fu sepolta.


Questa parte di territorio del Lazio meridionale è quindi citata in più opere letterarie dalle quali però emerge un profilo diverso del personaggio di Ulisse. L’Ulisse dantesco rappresenterebbe, infatti, l’antitesi del protagonista dell’Odissea che nostalgico verso il passato (Itaca e gli affetti familiari), vede in quello della Commedia un personaggio che interpreta l’avvenire come un qualcosa da conquistare e validare, concependo l’esistenza come un continuo superamento di ciò che sembra avere un limite.


Riferimenti:


Toponomastica del Circeo: V. Berard

Divina Commedia di Dante Alighieri: edizione del 1963, Fratelli Fabbri Editori - Milano


Immagine: Gruppo scultoreo del Ratto del Palladio conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga e Area Archeologica; fotografia di Nastassja di Cicco

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